lunedì 27 giugno 2011

MAURO LIKAR LIBERTA' INDOEUROPEA di Luca Cancelliere




LIBERTA' INDOEUROPEA

L’iconografia classica della libertà, raffigurata come divinità femminile coronata e togata, prende le mosse dall’istituzione del culto di Libertas, promossa nel 238 a.e.v. da Tiberio Gracco con la costruzione del primo tempio sull’Aventino. Significativo punto di svolta, ad opera di un tribuno della plebe di cui in questa sede occorre ricordare il nobile tentativo di costruzione di una Repubblica “nazional-popolare” (ci venga perdonato il termine) di “contadini-soldati”. Ma allo stesso tempo, nella “consecratio” del 238, significativamente avvenuta sul colle “plebeo” di Roma, si intravedono anche i primi segni dell’inversione di senso del concetto che lentamente, dai primordi indoeuropei fino ai tempi moderni, porta fino all’idea “moderna”, “emancipata” e “democratica” di libertà all’immagine significativa della monumentale statua dell’isolotto sul fiume Hudson. Cos’era invece, per i progenitori Arii, la libertà? Come si è potuti arrivare alla moderna idea di libertà?Nelle Monarchie dell’antico Oriente, come è noto, il sovrano era il padrone assoluto dei propri sudditi. Gli stessi ministri e dignitari della corona erano considerati servitori del sovrano. Così era nel mondo assiro-babilonese, siriaco, egiziano. Alcune limitazioni sono presenti in Egitto primariamente grazie al forte influsso del culto di Maat, la Giustizia, intesa altresì come limite al potere sovrano; evidente retaggio di influssi razziali atlantico-occidentali all’interno di una popolazione prevalentemente camitica. Tra le stirpi semitiche nomadi, allo stesso modo, il rapporto tra gli uomini e la Divinità è quello di un’assoluta subordinazione dei primi a un Dio geloso e possessivo.

Così Baal presso le genti siriache, così Jahvé, originariamente figura minore di divinità lunare nel pantheon cananeo delle origini, poi Dio unico ed esclusivo geloso del patto con il proprio popolo, “Signore Iddio”, “Adonai Elohim”. A suo tempo il buon Evola, sulla scorta del Clauss, correttamente attribuì questa concezione religiosa a un tipo umano partecipe delle “razze dello spirito” “desertica” e “demetrico-lunare”, pronunciandosi a favore del Dio “aristocratico dei Romani, il Dio dei patrizi, che si prega in piedi e a fronte alta, e che si porta alla testa delle legioni vittoriose – non il patrono dei miserabili e degli afflitti che si implora ai piedi del crocifisso, nella disfatta di tutto il proprio animo”. Affermazioni, quelle dell’Evola di “Imperialismo Pagano”, che pur avendo un effettivo riscontro nella situazione di fatto del cristianesimo delle origini, non tengono conto della concezione bizantina del “Cristo Pantocratore”, di quella occidentale del “Cristo Re” e della croce come “Axis Mundi”, come di altre figure come quella di Michele Arcangelo, solo per ricordarne una; ma la concezione regale non è assente neanche nell’Antico Testamento, da Melchisedec in poi. Si tratta di vere e proprie reviviscenze arie all’interno di un sistema religioso di provenienza allogena, ma riplasmato e rivivificato “a proprio uso e consumo” dalle genti d’Europa. Comunque, la distinzione è posta: il mondo indoeuropeo, sin dalle origini, risulta essere il terreno di elezione del concetto stesso di libertà. Hegel, con con una nota semplificazione, nella sua ossessione triadica identificò le tre fasi storiche interne allo sviluppo dello Spirito Oggettivo, e in particolare dell’idea di Stato, in questi termini: “Negli Stati orientali la libertà è di uno solo, poi negli Stati greco – romani la libertà appartiene a pochi (il Senato, l’aristocrazia), è solo nello Stato tedesco che da Lutero in poi la libertà appartiene a tutti”. Quindi, per Hegel, è nel mondo germanico, a torto o a ragione identificato da buona parte del pensiero romantico prima, razzista, poi, come la quintessenza dello spirito ario, che maggiormente risplende il concetto di libertà. Il supposto primato germanico, come idea di principio, per noi “Romano-Italici” non è accettabile, per l’ovvia considerazione che identificare l’Indoeuropeo tipico con il Germano è un’abissale stortura che non tiene conto che le più fulgide civiltà indoeuropee, da Roma all’Ellade, dall’Iran all’India, si sono sviluppate in un arco spaziale che va dal Mediterraneo alle sponde del Gange. L’esaltazione della figura di Lutero, presentato come eroe nazionale tedesco ma in realtà veicolo di influenze spirituali semitiche e promotore del ritorno allo spirito vetero-testamentario della “Legge”: “Un monaco tedesco, Lutero, giunse a Roma. Questo monaco, con tutti gli istinti vendicativi di un sacerdote malriuscito, a Roma si ribellò contro il Rinascimento (…) Ah questi tedeschi, quanto ci sono costati! (…) Hanno sulla coscienza pure la forma di cristianesimo più disonesta, più inconfutabile che esista: il protestantesimo...”.


Tuttavia, bisogna rendere merito a Hegel di avere intuito un aspetto indubbiamente centrale nella questione, ovvero che dal mondo indo-europeo, da lui identificato in modo errato e parziale con il solo mondo germanico, germoglia l’idea di libertà. La radice del termine libertà nelle lingue indoeuropee deriva dal proto-indoeuropeo “Leudh” (da cui il greco “Eleutherìa” e il latino “Libertas”) o “Frya” (da cui l’omonima parola sanscrita, nonché l’inglese “Freedom” e il tedesco “Freiheit”). Dalle stesse radici, osserva Emile Benveniste, derivano parole quali le tedesche “lieben” (amare) nel primo caso e “Freund” (amico) nel secondo, a sottolineare che il concetto di libertà ha a che fare con la partecipazione a una comunità, a un destino comune. Allo stesso modo, è “ingenuus” colui che è stato “generato” libero, cioè in buona sostanza chi può vantare una continuità di stirpe, un lignaggio, a rimarcare la concezione aristocratica della libertà. Si noti anche, in questo caso, l’inversione demonica della parola nel mondo moderno. “Ingenuo” nell’odierna lingua italiana, è stato degradato a sinonimo di “inesperto”, “sprovveduto”, credulone”. Ricordiamoci di quanto scrive Giovenale nella sua Satira III: “Una Roma ingrecata non posso soffrirla, Quiriti; ma quanto vi sia di acheo in questa feccia bisogna chiederselo. Ormai da tempo l'Oronte di Siria sfocia nel Tevere e con sé rovescia idiomi, costumi, flautisti, arpe oblique, tamburelli esotici e le sue ragazze costrette a battere nel circo”. Dietro il rovesciamento di senso della parola “ingenuus”, si intravede una realtà di tipo etnico-culturale, ben descritta dal poeta latino. L’afflusso massiccio di Levantini furbi e intriganti contribuisce a creare una società in cui ormai il denaro, ottenuto quasi sempre con macchinazioni, menzogne e raggiri, è l’unico metro del prestigio sociale. Per cui sono considerati “inesperti”, “sprovveduti” e “creduloni” coloro che, per fedeltà al proprio sangue, ancora osservano l’antico stile romano-italico della parola data, dell’onore, del rispetto. Più tardi, è proprio dallo svilimento mercantile della sfera del politico nella società moderna che deriva l’inversione dei valori, da cui discende il decadimento del vero concetto di Libertà, che va di pari passo con il decadimento dell’idea del vero Stato. Nell’antico mondo indoeuropeo, invece, l’esercizio della libertà era tutt’uno con la preservazione dell’integrità etnica. Si pensi agli “Omoioi” (uguali) di Sparta, alla stessa democrazia ellenica, al Civis romano, alla Sippe germanica e agli Arimanni “uomini liberi” dei Longobardi. 


La libertà, la partecipazione alla gestione della vita della Comunità e dello Stato, assumeva il connotato pubblicistico e sacrale del dovere e del “munus” piuttosto che quello individualistico e arbitrario del “diritto”. Dovere ereditato attraverso il retaggio gentilizio del sangue. Attraverso i secoli, si pensi all’orgoglioso concetto di libertà dei comuni italiani e delle repubbliche marinare del Medio Evo, dove la fondazione delle libertà comunali va di pari passo con il recupero delle antiche tradizioni latine e romane, come emerge dal nome tipico di “Consoli” attribuito alle massime cariche della Città-Stato. Ciò a prescindere dalla strumentalizzazione che di tale libertà civica fece il complotto guelfo-mercantile contro la legittima autorità imperiale. Si pensi all’esperienza dei civilissimi giudicati sardi e all’epopea di Eleonora d’Arborea, che intorno al 1400 emanò il codice di leggi detto “Carta de Logu” e difese eroicamente la libertà della Sardegna contro l’invasore iberico. Si rammentino le orgogliose lotte per la libertà nazionale dei popoli balcanici contro l’invasore turco, dai Romeni di Vlad ai Serbi, agli Albanesi (oggi tragicamente divisi, ma un tempo uniti sotto il regno di Stefano Dusan “Zar dei Serbi, dei Greci, degli Albanesi e dei Bulgari”), fino alla tragica ed eroica fine di Lazar a Kosovo Polje. Si pensi all’epopea russa di Dmitry Donskoj. Si pensi all’uso più tardo nel mondo germanico, fino al secolo scorso, del titolo di “Freiherr” (libero signore) per identificare gli esponenti dell’aristocrazia, vivaio delle Forze Armate e dell’ufficialità germanica. Si ricordi infine che la libertà per cui combatterono gli uomini del nostro Risorgimento era quella della Patria. Ricorda Giovanni Gentile che nessuno di loro, da Mazzini a Cavour a Ricasoli, “si fece mai scrupolo di anteporre la patria all'idolo della libertà”. Come ricorda Adriano Romualdi, “non col grido "viva il suffragio universale" ma quello di "Roma o morte" partirono le squadre di Garibaldi”. Fu quella la libertà nazionale necessaria alla nascita di una nuova Roma e di una più grande Italia, che costruirà il proprio impero coloniale, trionferà a Vittorio Veneto nel novembre del 1918 e a Roma nell’ottobre del 1922 e solo nel 1945 cederà ai profeti armati della falsa libertà, quella che ancora oggi ci tiene sotto il tallone dei banchieri e degli usurai e delle loro basi NATO.Questa è la vera libertà indoeuropea, non quella dei pensatori liberali, illuministi e democratici: non è quella di Locke o di Voltaire, né quella di Kant, di Mirabeau, di Constant, di Wilson o di Hayek. La vera libertà è un dovere e non è un diritto; è disciplina e non è arbitrio; è distinzione e non è mescolanza; è comunitarismo e non è individualismo; è organicismo e non è contrattualismo; è Stato e non è disordine; è stile e non è conformismo. E’ capacità di tenere la schiena diritta e di non piegarsi mai, nemmeno quando conviene.

LUCA CANCELLIERE

sabato 4 giugno 2011

MAURO LIKAR ALCUNE PRECISAZIONI STORICHE DI EMILIO GIULIANA SUL GENOCIDIO ARMENO

 

MAURO LIKAR



Alcune precisazioni storiche sul genocidio Armeno


Pubblicato da Admin il venerdì, giugno 03, 2011

di Emilio Giuliana

In un umido 2 giugno trentino, mi sono soffermato ad approfondire un articolo pubblicato su di un quotidiano locale, che  argomentava in merito, alla necessità della memoria storica, non impedendo però, la libertà di pensiero. Il pezzo scritto da Manuela Pellanda, prende spunto da una conferenza tenuta presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento,  alla quale hanno partecipato come relatori,  Siobhan Nashmarhall, docente di filosofia al Manhattanville college, la scrittrice Antonia Arslan e il professor Andrea Pugiotto, docente di Diritto  costituzionale presso l’Università di Ferrara.

 
L’articolo riporta delle affermazioni condivisibili, come ad esempio il pensiero del professor Pugiotto, quando asserisce che:
non è né col codice penale né con i “giorni della memoria” che si fa fronte alla pulsione a ripetere gli errori del passato o addirittura farne l’apologia. Per quanto non sovrapponibili, la negazione e la ritualizzazione retorica si rivelano due modi opposti di abusare della memoria
Posizione condivisa dalla scrittrice Arslan.

La scrittrice Arslan, prendendo spunto dal tema per la quale è stata invitata a partecipare, rilancia sulla  spinosa questione del genocidio armeno. Genocidio scomodo, declassato, snobbato o se tirato in ballo trattato con superficiale indifferenza. La scrittrice argomenta sull’ignobile sterminio, con dovizia di particolari molto interessanti, come ad esempio quando mette in evidenza Henry Morgenthau senior (padre di Henry Mergenthau jr, già Segretario del Tesoro degli Stati Uniti durante la presidenza di Franklin D. Roosevelt, passato alla storia perché ideatore del famoso quanto inumano “piano Morgenthau”, con il quale inflisse ai tedeschi civili reduci dalla apocalittica seconda guerra mondiale, delle sanzioni mostruose, tant’è che indusse Il ministro della Guerra americano Stimson a dire: 


Devo ancora incontrare un uomo che non sia stato terrificato dall’atteggiamento Cartaginese del Ministro del Tesoro. Si tratta di Semitismo divenuto selvaggio per vendetta e lascerà i semi di un’altra guerra nella prossima generazione
Ambasciatore americano di origine ebraica a Costantinopoli, che come altri ebrei, cercò di proteggere gli Armeni dal massacro! Al particolare messo in risalto dalla Arslan, vanno aggiunte altre peculiarità poco note. Ad esempio, quando si parla di genocidio Armeno, si colpevolizzano i turchi (pensando agli islamici), ma questa equazione è scorretta, in quanto i fanatici fautori che capeggiarono ed alimentarono il massacro armeno erano turchi di dato ma non di fatto. 
Del genocidio degli armeni non è colpevole - come ripete la disinformazione - l'impero Ottomano. Quando avvenne, tra il 1915 e il 1918, l'imperatore ottomano, il sultano Abdul Ahmid era stato esautorato, e si trovava agli arresti domiciliari a Salonicco, «nella residenza dei banchieri ebreo- italiani del Comitato Unione e Progresso», come scrisse Sir Gerard Lowther, l'ambasciatore britannico presso la Gran Porta, nella sua relazione al Foreign Office del 29 maggio 1910. I banchieri ebreo-italiani erano i dirigenti della Banca Commerciale Italiana, probabilmente il capo della filiale di Venezia e Trieste, quel Toeplitz ebreo- polacco, e del suo maneggione in Turchia, il futuro «conte» Volpi di Misurata.
Quanto al Comitato Unione e Progresso di cui parla Lowther, era la giunta militare che aveva preso il potere mettendo agli arresti il legittimo monarca. Si tratta dei Giovani Turchi, i quali turchi non sono, precisa l'ambasciatore: vengono tutti da Salonicco, «che conta una popolazione di 140 mila abitanti, di cui 80 mila sono ebrei spagnoli (espulsi dalla Spagna nel '500), e 20 mila della setta di Sabbatai Zevi o cripto-giudei, che professano esternamente l'Islam. Molti di questi ultimi hanno acquisito la nazionalità italiana e sono affiliati a logge massoniche italiane. 
Ernesto Nathan, il sindaco ebraico di Roma, è un alto grado della Massoneria, e i primi ministri ebrei (Sidney) Sonnino e (Luigi) Luzzatti, come altri senatori e deputati ebrei, sembra siano parimenti massoni». 
L'ambasciatore fa i nomi dei capi della giunta golpista: «(D)Javid Bey, deputato per Salonicco, un astutissimo cripo-giudeo e massone, ministro delle Finanze, mentre Talaat Bey, altro massone, è diventato ministro degli Interni (...). Il dottor Nazim, uno dei membri più influenti del Comitato di Salonicco e di cui si dice che sia di origine ebraica, in compagnia di un certo Faik Bey Toledo, cripto-giudeo di Salonicco», nonché il direttore di «l'Aurore, un giornale sionista aperto un anno fa a Costantinopoli, (che) non si stanca mai di ricordare ai suoi lettori che il dominio dell'Egitto, la terra dei Faraoni che obbligarono gli ebrei a costruire le piramidi, è parte della futura eredità di Israele». 
Di un altro giornale appositamente creato, «Le Jeune Turc», era fondatore e direttore Vladimir Yabotinski, il capo della destra sionista fanatica, accorso da Odessa per dare manforte ai Giovani Turchi. Scrive Lowther: «L'ispirazione del movimento di Salonicco sembra essere stato soprattutto ebraico (...). Carasso ha cominciato a giocare una parte importante (...) è notato che ebrei di ogni colore, locali e stranieri, sono sostenitori entusiasti del nuovo governo; fino al punto, come un turco mi ha detto, che ogni ebreo sembra diventato una spia potenziale dell'occulto Comitato (Unione e Progresso)». 
E' questa la giunta che ha sterminato gli armeni, macchiandosi di atrocità e crudeltà mai viste prima nella storia. Ma perchè, domanda il disinformato, gli ebrei e i dunmeh turchi (i seguaci del falso messia Sabbatai Zevi) avrebbero voluto uccidere la minoranza armena nell'impero ottomano? La risposta è nella Enciclopédia Judaica edizione 1971, volume 3, colonne 472-476. 
Alla voce «Armennia», si legge: «L'Armenia è anche chiamata Amalek, e gli ebrei spesso si riferiscono agli armeni come ad Amaleciti».E la Universal Jewish Enciclopédia, New York, 1939, alla voce Armenia è ancora più precisa: «Siccome gli armeni sono considerati discendenti degli Amaleciti, essi sono anche chiamati, fra gli ebrei d'Oriente anche Timheh' (che significa 'sarai cancellato', come in Deuteronomio 25:19, riferito agli Amaleciti». «Amalek», nella Torah (Genesi, 36,9-12) è il mitico popolo nemico di Israele, che per ordine di YHVH viene sterminato fino all'ultimo uomo. 
Una delle tante fantasia genocide degli estensori sacerdotali della Bibbia: in realtà, l'antico popolo di Giuda non ebbe mai la forza di compiere tanti stermini; si limitava ad immaginarli. Sotto la giunta dei cosiddetti Giovani Turchi, la loro fantasia potè diventare realtà. Prima gli uomini armeni tra i 16 e i 45 anni furono arruolati nell'esercito, assegnati a battaglioni logistici - disarmati - e massacrati. Poi ci si occupò di donne, vecchi e bambini. Uccisi per abbruciamento, per annegamento nel Mar Nero, per inoculazione di tifo o con iniezioni di morfina. Avviati nel deserto della Siria in «marce della morte», alla mercè di bande curde che violentavano le ragazze e i bambini, rapinavano, brutalizzavano gli altri.
Quelle marce che finivano nel nulla riducevano i superstiti a scheletri ambulanti, che cadevano morti di fame e di percosse. Il New York Times scriveva il 18 agosto 1915: «Le strade e l'Eufrate sono piene di corpi di esiliati, e quelli che sopravvivono sono condannati a morte certa. C'è il piano di sterminare l'intero popolo armeno». Il dottor Tevfik Rushdu, medico dunmeh, organizzò l'eliminazione scientifica dei cadaveri, con tonnellate di calce viva. Mehmet Nazim e Behaeddin Chakir, due esponenti del Comitato, sicuramente dunmeh (si noti il nome «Beha»; quanto a Nazim, era cognato di Rushdu), allestiscono una «Organizzazione Speciale» per lo sterminio sistematico: migliaia di delinquenti comuni vengono arruolati in questo corpo speciale.

Il comitato centrale dei Giovani Turchi, che turchi non erano, emanò, nel settembre 1915, la legge sulle «proprietà abbandonate», che dichiarava la confisca delle case, terre, bestiame ed altri beni «abbandonati» dai deportati armenti: una legge del tutto simile è vigente in Israele, dove gli ebrei confiscano le case di palestinesi dichiarati «assenti», perchè espulsi. Fuggiaschi, prigionieri, esiliati senza possibilità di ritorno. Talaat Pascià, uno dei tre dunmeh della giunta «Comitato Progresso e Unione», diede di suo pugno i seguenti ordini:


«Tutti i diritti degli armeni di vivere a lavorare sul territorio turco sono abrogati. La responsabilità è assunta dal governo, il quale ordina che non siano risparmiati nemmeno gli infanti nella culla. Nonostante ciò, per ragioni a noi ignote, un trattamento speciale viene accordato a 'certi individui' che, invece di essere portati direttamente nelle zone di deportazione, vengono tenuti ad Aleppo, causando con ciò nuove difficoltà al governo. Non si ascoltino le loro spiegazioni o ragioni: siano espulsi, donne e bambini, anche quando non sono in grado di muoversi... 
Anziché i mezzi indiretti usati in altre zone (ossia la messa alla fame e l'espulsione dalle case, l'avvio verso campi di concentramento, eccetera) si possono usare metodi diretti, se con sicurezza. Informare i funzionari designati per la bisogna che possono adempiere al nostro vero scopo senza timore di essere chiamati a risponderne». E ancora, sempre Talaat: «E' stato già riferito che in base agli ordini del Dkemet, il governo ha deciso di sterminare, fino all'ultimo uomo, tutti gli armeni in Turchia. Chi si oppone a questo ordine non può mantenere la sua carica nell'Impero». 
E ancora: «Stiamo stati informati che a Sivas, Mamouret-al-Aziz, Darbeikir ed Erzurum, alcune famiglie musulmane hanno adottato, o tenuto come servi, dei bambini di armeni... Ordiniamo con la presente di raccogliere tutti questi bambini nella vostra provincia e di spedirli nei campi di deportazione». Ed ancora un altro ordine:«Abbiamo udito che certi orfanatrofi da poco aperti ammettono bambini armeni. Ciò vien fatto perchè le nostre volontà non sono a loro conoscenza. 
Il governo ritiene il nutrire questi bambini e prolungare la loro esistenza un'azione contraria alla sua volontà, in quanto ritiene la vita di questi bambini dannosa», (dalle «Memoirs of Naim Bey, Londra 1920). La giunta del Comitato Unione e Progresso commise un errore: entrò nella Grande Guerra a fianco degli imperi centrali. Sconfitti insieme ai tedeschi e agli austriaci, fu restaurato al potere il sultano, Mehmet VI, che nel 1919 fece aprire un processo contro i membri della giunta; ormai erano tutti fuggiti all'estero, per lo più in Germania. La sentenza condannò a morte, in latitanza, Talat, Enver Pascia, il dottor Nazim, Cemal.
 MAURO LIKAR